Marketing e Salute Mentale: il Tracciamento Invisibile delle Piattaforme
I temi sollevati dall'inchiesta Tracciamenti: tra privacy, dati sensibili e il marketing dietro le piattaforme di psicologia online.
Lo scorso anno è uscita un’inchiesta giornalistica titolata “Tracciamenti” che ha attirato parecchia attenzione su Instagram proprio in questi primi giorni del 2025. Non per essere una delle finaliste del Premio Morrione 2024 per il giornalismo investigativo, ma perché un post che riassumeva l’inchiesta è andato virale.

I tre autori Edoardo Anziano, Francesca Cicculli, e Roberta Lancellotti - lo specifico perché non sono le stesse persone che hanno scritto il post - si erano posti una domanda sulla privacy: ‘cosa si nasconde dietro il successo delle piattaforme di psicologia?’, e su questo hanno strutturato il loro lavoro di indagine.
Tra coloro che hanno letto il post riassuntivo di Scomodo “una comunità reale [che crea] spazi di espressione, condivisione e crescita per le future generazioni” (cit. dal loro sito), ci si è divisi come il Mar Rosso, da un lato chi è rimasto scandalizzato e anche un po’ turbato, dall’altro chi ha denunciato la superficialità del post e dell’inchiesta.
Diciamo che leggendo i commenti mi è sembrato che la conversazione fosse abbastanza polarizzata, ecco.
Da un lato una persona scrive: “questi sono imprenditori che hanno visto l’impennata del settore… ma ci rendiamo conto della schifezza…” un’altra aggiunge: “io onestamente non lo volevo sapere. […] Vale davvero la pena rovinare un percorso di terapia serio e importante […] per fare cosa esattamente? Confermare che queste piattaforme fanno esattamente quello che ci si aspetta da ogni azienda in questo sistema capitalista di merda?”.
Molte, moltissime dicono: “questo post è di una superficialità DISARMANTE. Quasi diffamatorio aggiungerei”, oppure “come già scritto da altri utenti, questo post Instagram è davvero da click bait e pressappochista”, o ancora “l’articolo e l’inchiesta sono al limite della disonestà intellettuale”.
Considerate che ci metto la mano sul fuoco che la maggior parte di queste persone non ha visto il video dell’inchiesta per intero, si capiva dalle argomentazioni. E già questo rappresenta un problema.
Ve la faccio breve: Anziano, Cicculli e Lancellotti (che hanno preso l’idea per l’inchiesta dalla no-profit americana The Markup) volevano verificare se le piattaforme di telepsicologia tracciano o meno le persone sia quelle che entrano nel sito anche solo per dare un’occhiata, che i pazienti.
Tracciare ovvero monitorare i loro comportamenti per profilarle in qualche modo e capire come migliorare le proprie strategie di marketing e di vendita del loro servizio. Insomma, a fini pubblicitari.
Al minuto 16:41 Danila De Stefano CEO di Unobravo dice chiaramente che non si può fare advertising senza l’utilizzo dei cookies. Della serie ‘siamo obbligati a usarli’.
Alcune doverose precisazioni
Non si tratta di spifferare nome e cognome, diagnosi e informazioni sensibili dei pazienti, tipo cosa mi sono detta con il terapeuta o cosa gli ho scritto in chat, ma di raccogliere informazioni sui comportamenti online.
Un’altra cosa altrettanto importante da specificare è che i professionisti che fanno psicoterapia online non usano tutti i cookies perché la psicoterapia online non si fa solo attraverso le piattaforme. Rimane la stessa pratica terapeutica somministrata da professionisti della salute mentale abilitati, che questa venga elargita in presenza, su Skype o su Unobravo.
Faccio parte delle persone che non sono d’accordo con la normalizzazione di questi mezzi di promozione da parte dei professionisti sanitari. Tutti, non solo quelli della salute mentale.
Credo che andrebbe attenzionata questa pratica e che si dovrebbe aprire un serio tavolo di confronto, cosa che non sta accadendo. Anzi, con lo smantellamento del servizio sanitario nazionale si abbraccia sempre di più il modello americano delle assicurazioni, che con la pubblicità ci va a nozze.
Ora, vediamo cosa dice questa inchiesta e cosa portarci a casa.
La tesi dell’inchiesta: cosa fanno davvero le piattaforme?
minuto 00:17 - vediamo Federico, il primo intervistato e fruitore dei servizi di una piattaforma dire: “adesso non mi sento più dentro le quattro mura domestiche, ma mi sento di star facendo terapia online su una diretta TikTok”.
La scelta di questa frase come apertura è stata giudicata strumentalizzante. Sì, da il tono all’inchiesta e alza la drammaticità, ma lo spettatore avrà tempo di farsi un’idea e tutto sommato alcune notizie non sono così neutre. A me personalmente è sembrata una metafora calzante a restituire la paura di vedere violato il setting terapeutico e quello che veniva considerato uno spazio sicuro.
Cinquant’anni fa avrebbero detto ‘pubblica piazza’ oggi è stata usata la ‘diretta TikTok’.
Ma proseguiamo l’analisi per capire meglio.
minuto 01:23 - viene contestualizzato che il bisogno di cure psicologiche è esploso durante la pandemia e che le piattaforme in questione hanno riempito il vuoto lasciato dalla sanità pubblica. Questo è un primo punto fondamentale.
Costo, comodità e rapidità: i punti di forza delle piattaforme
minuto 03:00 - Alessandra, altra utente, dice un’altra cosa degna di nota: ‘in quel momento [quando ha iniziato psicoterapia online] c’era il Covid, quindi per forza mi sono rivolta a loro’.
Sono in tantissimi ad aver associato la psicoterapia online con il ricorre alle piattaforme. Spesso mi viene chiesto quale piattaforma consiglio per fare terapia online, come se non fosse una cosa che si può fare con qualsiasi professionista con accesso a internet.
🔸Varrebbe la pena di chiarire meglio la differenza tra il lavoro online del professionista singolo, dello studio e della piattaforma.
minuto 03.05 - Daniele dice che ha scelto le piattaforme online per una questione di costi, oltre che di comodità.
Sulla questione costi mi prendo giusto un paio di righe per dire che una seduta sia su Serenis che su Unobravo costa €49 (quindi 50) e io per anni ho pagato la mia psicoterapia 50 euro a seduta a Milano. Non è gratis.
Insomma, nei primi 3 minuti capiamo quali sono i punti di forza percepiti delle piattaforme di psicologia online: il prezzo, la rapidità con cui si ottiene l’appuntamento e non doversi recare in uno studio fisico.
Ecco la risposta alla domanda iniziale: ‘cosa si nasconde dietro il successo delle piattaforme di psicologia?’. Bella, ciao, spegniamo la videocamera. Invece no.
minuto 03:51 - lanciano la bomba. Prenotano una seduta di psicoterapia con Unobravo per monitorare, con degli strumenti di analisi, come si comporta il sito ed ecco che scoprono che manda un flusso continuo di informazioni a big tech come Facebook, Microsoft, Google, LinkedIn e TikTok.
Unobravo ha scelto come piattaforma per il servizio di videochiamata Whereby, che sul sito specifica che i dati degli utenti possono essere mandati a terze parti come: gestori di pagamento e recupero crediti, fornitori di servizi email e marketing, e di reclutamento del personale.
Il ruolo dei dati e il mercato invisibile
minuto 04:12 - Colin Lecher, reporter investigativo newyorkese, spiega che quando Facebook riceve queste informazioni può cercare di abbinare l’utente al suo profilo social.
Considerato quello che sappiamo su come Meta ha influenzato diverse elezioni (lo rivedremo dopo) e le recenti dichiarazioni di Mark Zuckerberg dopo la vittoria di Trump, non mi stupisce che Lecher dichiarasse di non volere che Meta usi le sue informazioni finanziarie o sanitarie per alimentare gli algoritmi.
Whereby non è di proprietà di Unobravo, ma Unobravo sa che Whereby comunica i dati degli utenti a terze parti. A onor del vero molte di queste cose sono scritte nell’informativa della privacy e nella cookie policy di Unobravo - che ovviamente mi sono letta per intero.
Rimangono però astratte, oltre che una scocciatura che qualsiasi persona si deve sorbire ogni volta che apre un sito, perciò non mi stupisce che vedere i dati mentre vengono inviati durante la seduta sia più impattante di un muro di testo.
Pochi istanti dopo ci viene mostrato come i dati dell’utente vengano inviati e registrati da Facebook, anche durante la compilazione del questionario per l’assegnazione del professionista.
Di cosa si tratta? Unobravo ha una pletora di professionisti da assegnare ai futuri pazienti, ma non assegna a caso. Vengono fatte delle domande e a scegliere è un algoritmo, sulla base delle informazioni che gli vengono date. Un po’ come l’algoritmo di YouTube ci propone i video e quello di Spotify le canzoni, sulla base di quello che sembra piacerci.
Qui ci potrebbe essere un intoppo: da come viene posta la questione potrebbe sembrare che Unobravo recuperi le informazioni digitate dal paziente e comunichi quelle a Facebook; quando in realtà non invia quello che noi stiamo ‘dicendo’ ma quello che stiamo facendo. La questione viene però chiarita più avanti.
minuto 05:06 - Claudio Agosti, attivista pro-privacy che vi invito a conoscere meglio leggendo questo articolo de Il Manifesto, introduce il tema del mercato dei dati. Per qualcuno sarà cosa nota, mentre per altri no, ma i dati che noi concediamo hanno un valore economico.
Non vi è mai capitato che per leggere un articolo di giornale vi venisse chiesto di accettare la ‘Cookie policy’ o di rifiutare ma abbonarvi? Ecco, è comprensibile dedurre che il valore economico dei dati concessi sia almeno pari all’abbonamento, ma è molto superiore.
minuto 06:00 - iniziano a presentarci alcune (una decina) di le piattaforme di psicologia italiane, concentrandosi su Unobravo e Serenis perché entrambe, oltre ad aver accettato di essere intervistate, hanno ricevuto finanziamenti milionari - un fondo della famiglia Berlusconi per Unobravo, il fondo Ventures della casa farmaceutica Angelini per Serenis e per entrambe la società pubblica Cassa Depositi e Prestiti.
A me sembrano più che ottimi motivi per focalizzarsi su queste in particolare.
Serenis è arrivata a fatturare più di 20 milioni di euro (nel 2023) in 3 anni, mentre Unobravo nello stesso anno di milioni ne ha fatturati 77,7.
Il nodo etico del consenso informato
minuto 07:08 - Danila De Stefano, fondatrice e CEO di Unobravo dice: “ma io non sto condividendo il nome di un paziente quindi è impossibile connetterlo […] con quale persona ha compilato il questionario. È un numero”.
Non mi piace essere considerata un numero, trovo l’uscita infelice.
Qui succede poi una cosa interessante: l’intervistatrice chiede a De Stefano se ha considerato che se LinkedIn riceve queste informazioni (come abbiamo visto accadere al minuto 03:51) un recruiter potrebbe includermi o escludermi - lo metto in grassetto volutamente - dai candidati per considerare per un certo lavoro sulla base di questi dati.
De Stefano risponde: “vi voglio fare una domanda io, ma voi continuate a citare il recruiter perché pensate che chi vada dallo psicologo venga sfavorito in un processo di selezione del lavoro?”.
È una contro domanda che non ho valutato positivamente perché è noto che durante i colloqui si valutino le personalità degli intervistati affinché siano più aderenti possibile a quelle caratteristiche considerate massimamente utili per l’azienda. E il fatto che nelle Risorse Umane lavorino molti psicologi dà il polso di quanto sia considerato questo aspetto.
Non mi pare dunque uno scandalo, sarei più sorpresa se la valutassero positivamente.
Il Counterproductive work behavior o comportamento lavorativo controproducente, è un problema da che le aziende assumono personale (McLane, Walmsley, 2020), quindi la domanda non era peregrina.
minuto 07:44 - Daniele Francescon, co-fondatore di Serenis, come la controparte di Unobravo dice che non stanno spifferando ciò che viene detto in seduta, la diagnosi o quello che c’è scritto nelle risposte del questionario ma solo “eventi” cioè cose che sono state fatte sulla pagina, azioni.
Questa cosa viene ripetuta come se questi eventi/azioni non fossero nulla. Se così fosse perché gli viene dato un valore economico? Se proprio fossero di così poco conto perché tutte le big tech, che non mi pare abbiano tempo da perdere, si affannano tanto a collezionare?
minuto 08:22 - i tre intervistatori visitano la pagina di Unobravo e poi vanno su un sito di acquisti online. Usando gli strumenti di analisi già citati al minuto 04:12, notano che a tutti e tre viene assegnato lo stesso codice per tracciare la loro presenza da un sito all’altro.
Agosti e Stefano Rossetti, avvocato per la protezione dei dati presso Noyb no-profit austriaca che si occupa di tutela dei dati, spiegano che il valore di quel codice cresce perché non traccia solo UN movimento ma li traccia tutti; dando alle big tech non la singola notizia di un evento/azione ma dando accesso a una serie di eventi/azioni che permetteranno di profilare i comportamenti online di una quantità di persone.
Per le big tech è come guardare i comportamento di tanti pesci in un acquario.
Tutti questi dati, finiti in un enorme database e accessibili data brokers (individui o aziende specializzati nella raccolta di dati personali o su persone, ottenuti da registri pubblici o privatamente, e nella vendita di questi a terze parti che li useranno per vari scopi) vengono usati per creare un tuo profilo - con il tuo codice, per poi venderlo agli inserzionisti.
Esempio: decido di vendere un prodotto online e di pagare della pubblicità a Meta (Facebook, Instagram) per farvelo vedere. Meta mi farà delle domande specifiche per capire quale tipo di cliente selezionare affinché sia più disponibile a pagare per fare quell’acquisto: dove vive, quanti anni ha, gli interessi, è single oppure no, ha figli oppure no, è laureato o si è fermato alle elementari, qual è il suo genere ecc.
Questi non sono dati ipotizzati da Meta (o chi per lui) ma informazioni vere, le nostre, e che per loro sono forte di stratosferico guadagno quotidiano.
La prospettiva inquietante che ci pone Rossetti è: che il rischio che questi dati vengano utilizzati per finalità non annunciate è realistico. Il caso Facebook-Cambridge Analytica, che ha usato i dati in suo possesso per influenzare 44 campagne elettorali politiche statunitensi è realissimo.
E ci viene rimessa la pulce nell’orecchio:
“metti che un datore di lavoro completamente pazzo - afferma Rossetti - decida di non avere a che fare con gente che frequenta siti di assistenza psicologica, può chiedere al sistema dei data brokers uno screening dei potenziali candidati per escludere gente che ha determinati problemi psicologici, io non ne saprò mai nulla perché quell’informazione che il data broker ha fornito non sapevo neppure che ce l’avessero”.
Il rischio di perdere fiducia nella psicoterapia online
minuto 10:21 - quello stesso Federico che ha fatto l’esempio della diretta TikTok vede tutto ciò che abbiamo visto noi fino a qui e dice “posso comprendere la profilazione dell’utente se compra una cosa online […] però quando si tratta di terapia online è una cosa talmente tanto intima che non la sento più intima adesso”.
Alessandra: “mi da fastidio la presa in giro di una start-up che può occuparsi di terapia come di vendere cibo per gatti, non gliene frega nulla. Il tema della privacy è enorme però in certe cose ti abbandoni un po’ di più perché pensi sia il luogo protetto”.
Denise: “non è detto che io voglia raccontare a una persona random che vado dallo psicologo, perché te lo devi dì? O meglio perche te lo devi prendere [l’informazione] senza avvisarmi?”.
minuto 11:20 - John Torous, direttore della psichiatria digitale a Harvard, pone l’accento sul fatto che affinché la terapia si efficace si debba essere completamente onesti, condizione che viene meno nel momento in cui l’utente non ha idea di come stiano venendo utilizzati i suoi dati.
🔸Su questo punto l’intervista sarebbe potuta essere più approfondita. Non è che la psicoterapia fatta fin qui sia stata inefficace, e neppure si può scaricare una colpa sul terapeuta che probabilmente, proprio come il paziente, non era consapevole di tutto questo movimento di dati, come fosse stato un disonesto.
Il fatto invece che, ora che si inizia a prendere collettivamente coscienza del fenomeno sia obbligatorio ragionare su tutele maggiori è sacrosanto.
E infatti da questa intervista si prosegue interpellando il Garante per la Protezione dei Dati Personali - GPDP, nella persona di Guido Scorza, che pur non avendo procedimenti aperti verso le piattaforme in questione, al minuto 12:18 dice:
“Se l’utente richiede attraverso la piattaforma un’interazione con un professionista medico, verosimilmente significherà che ha un’esigenza che riguarda quel tipo di patologia. Questo è un dato particolare, il rischio maggiore è legato alla maggior quantità di dati che lasciamo dietro di noi rispetto alla fruizione dello stesso servizio fisico, e al maggior numero di soggetti - talvolta anche completamente estranei all’esercizio dell’attività medica o delle cose dell’universo della salute - che vengono in possesso o possono venire in possesso di quelle informazioni.
Ovvio che se mi si dice che i miei dati personali verranno utilizzati solo ed esclusivamente per consentirmi di fruire di quella prestazione mentre i miei dati personali sono condivisi con N altri soggetti per finalità altre, magari di carattere promozionale o di carattere commerciale, beh lo scenario cambia completamente.
Il servizio è lo stesso ma i rischi diventano superiori alle opportunità e direi i rischi si trasformano in violazioni della disciplina sulla protezione dei dati personali.
Scorza aggiunge un pezzo interessante ovvero che la quantità di tempo passata sulla piattaforma, potenzialmente tanto, soprattutto nel caso di chi si trasforma in paziente, aumenta il rischio perché aumenta la quantità di dati (e di conferme per le big tech sulla corretta profilazione) raccolti.
A questo non avevo sinceramente pensato.
minuto 13:45 - si apre il capitolo “consenso informato”. Raccogliere i dati non è illegale, soprattutto se l’utente dà il permesso di raccoglierli, cosa che facciamo tutti i giorni diverse volte al giorno senza dare nemmeno uno straccio di letta né all’informativa sulla privacy né alla cookie policy.
Chiesto a Francescon se secondo lui è chiaro agli utenti che Serenis comunica i loro dati alle big tech, lui risponde di sì perché hanno spuntato la casella.
A me questo fa sorridere, perché vorrei vedere quante volte lui si legge le informative a cui dà il consenso. Tralasciando la risposta data (presumo) di getto, avrebbe avuto più senso se avesse detto che dal momento in cui l’utente spunta la casella si prende la responsabilità di aver capito. Ma non era questa la domanda.
minuto 14:20 - tutti i pazienti intervistati confermano che non hanno letto l’informativa sulla privacy.
Ribadisco quanto detto poco sopra (minuto 04:12) che le informative sia di Unobravo che di Serenis sono leggibilissime, anche se non è così automatico dedurne tutto ciò che è stato visto e raccontato fin qui.

Sono certa che la cookie policy sia stata redatta e approvata attentamente e con tutte le conferme di avvocati specializzatissimi, ma prima mi si dice che il sito web non trasmette dati, poi che possono essere trasferiti addirittura al di fuori dell’Unione Europea (sospetto che quel ‘personali’ faccia la differenza). Mi viene detto che posso impedire l’installazione dei cookie ma col rischio che il sito non funzioni. Insomma o accetto i cookie o non uso il sito, è questa la scelta.
minuto 15:04 - secondo quanto dice l’avvocato Rossetti poi il consenso non sarebbe valido neppure dopo aver letto la cookie policy visto che non è scritto in chiaro che i dati finiranno nelle mani dei data broker ed è impossibile avere certezza di come saranno usati.
🔸Una dovuta specifica: questo problema non è esclusivo delle piattaforme di psicologia, ma di qualsiasi sito internet che ha comunque bisogno di cookies per funzionare. È vero però che più si vuole essere più performanti sul piano pubblicitario si monitoreranno più azioni, e aggiungiamoci il fattore tempo e uso. Tanto tempo si passa su un sito e tante più azioni si fanno, quanti più cookie verranno raccolti. Proseguiamo.
minuto 15:19 - Agosti: “non ci si può aspettare che le persone abbiano questa competenza. È come dire: ‘sono un consumatore quanto devo verificare che nel mio cibo non ci sia l’arsenico?’ […] non è che devo essere bravo come chimico per verificare il cibo che mangio”.
minuto 15:36 - Rossetti: “io proprio non riesco a capire, non riesco a trovare la connessione tra la finalità di marketing, tra la pubblicità, e la mia salute mentale”.
Eccolo il nodo gordiano.
La piattaforma privata di psicologia - che risponde ad una richiesta che la Sanità pubblica non riesce a soddisfare, non ha l’unica finalità di mantenersi e di curare, anche l’ambizione di crescere e moltiplicarsi (vedi Unobravo che sta aprendo anche in altri paesi europei). Ha dunque bisogno di capire sempre più approfonditamente come profilare gli utenti per creare campagne pubblicitarie sempre più mirate a raggiungere sempre nuovi clienti.
Come abbiamo visto al minuto 06:00 hanno dietro dei finanziatori e dei soci che vogliono un ritorno sugli investimenti, questa è la connessione.
minuto 16:09 - viene raccontato il comunicato di Sygmund, una delle piattaforme di psicologia contattate - e una delle tre su nove ad aver accettato il confronto con gli autori dell’inchiesta - che dice che i vecchi metodi come volantinaggio e cartellonistica non sono praticabili per questo tipo di realtà, ma che dal 2023 hanno smesso di pubblicizzarsi su Facebook ‘dimostrando il nostro impegno verso un approccio etico e responsabile’.
Danila De Stefano la pensa diversamente “il problema è che oggi ruota tutto attorno ai social media, noi siamo passivi a un mondo che è molto più grande di noi […] e cerchiamo di utilizzare le pubblicità nel modo più etico possibile affinché noi riusciamo a deliverare (dare/consegnare) un servizio di salute che purtroppo ad oggi non c’è altro modo di sponsorizzare”.
Non è propriamente vero che non c’è altro modo di sponsorizzare, c’è da accettare il fatto che pubblicizzando più eticamente si deve rinunciare a parte della visibilità e del fatturato.
Prosegue: “perché non è che io posso fare advertising senza i cookie, tanto vale che ci butto i soldi”.
🔸Insieme ai soldi che non sono buttati bensì investiti, si buttano però anche i dati dei pazienti e dei potenziali pazienti in mano a terze realtà e persone delle quali le piattaforme non sono a conoscenza.
La mia pretesa è che si apra un tavolo di lavoro che regolamenti queste situazioni.
minuto 17:03 - Francescon afferma che il succo è “stiamo parlando di tracciare le pubblicità per vedere come sono andate”.
Arrivati quasi alla fine dell’inchiesta mi pare evidente che non sia affatto questo il punto.
Semplificarlo così può giovare visto che sull’altro piatto della bilancia rispetto al tutelare l’utenza c’è la necessità di far crescere l’azienda, ma la questione della raccolta dei dati, del monitoraggio dei comportamenti e dell’educazione degli algoritmi sono temi ben più grandi delle piattaforme di psicologia che pure possono avere un peso notevolissimo nell’alimentare questa macchina; soprattutto quando hanno tali affluenze.
Conclusione: Privacy e benessere mentale non possono coesistere?
minuto 17:28 - alla domanda ‘ma una piattaforma come Serenis non dovrebbe funzionare in modo diverso rispetto ad una piattaforma d’acquisto digitale?’, la risposta di Francescon è: “no” e il proseguimento conferma la semplificazione che ho sottolineato: “perché se vogliamo fare quello che vogliamo fare cioè raggiungere le persone, le persone stanno lì stanno sui social, stanno su Google, il contesto è questo. E se noi vogliamo giocare a questo gioco, di rendere accessibile il benessere mentale e avvicinare le persone alla terapia: non le trovi per strada, le trovi lì.”
In altre parole, per rendere la salute mentale accessibile alle persone bisogna giocare il gioco della caccia all’uovo online.
A giocare però non ci sta chi ha bisogno di psicoterapia, e infatti Denise - una delle pazienti intervistate - dice che è materia troppo importante e delicata da introdurre a cuor leggero views e adv, come fossero semplicemente parte di un regolamento.
No, non è un gioco e considerarlo tale non basta a chiudere la partita.
“Non stiamo parlando di vendere un paio di calzini, stiamo parlando di una cosa che se non funziona, non funziona la tua vita”. (Denise)
Il pensiero di Federico e della ‘psicoterapia in diretta TikTok’ si completa quando dice che ha la sensazione che il percorso si snaturi e diventi qualcosa da ‘rivendere’.
Si può essere o meno d’accordo con questa affermazione, vedendola dall’esterno e da fruitrice decennale di psicoterapia sono abbastanza certa che il percorso abbia ancora validità ma il punto è che far entrare il marketing nella sanità apre a dubbi e scenari inaspettati.
Si possono rimandare i ragionamenti ma non sparirà il problema, e seppure è vero che qualcosa resterà imprevedibile, cercare di tutelare massimamente i pazienti che non devono in alcun modo diventare materia di studio per capire come raggiungere nuovi pazienti-clienti, è un obbligo da codice deontologico degli psicologi.
Rendere la psicoterapia avvicinabile, e non avvicinare le persone alla psicoterapia dovrebbe essere il focus degli sforzi per essere trovati.
“I dati personali andrebbero trattati come fossero scorie nucleari” dice Agosti, “cioè non devono essere trattate e quando le tratti deve essere in modo molto limitato, e non devono mai perdersi perché se le perdi sono nell’ambiente, non puoi recuperarle facilmente […] mi chiedo se non si potrebbe pensare a un web migliore”.
Trovo sia un diritto pretendere che ci si interroghi collettivamente su questo, a maggior ragione quando c’è di mezzo la salute.
minuto 19:35 - ci viene mostrato come, poco dopo l’intervista Serenis abbia tolto i cookies di terze parti dopo la compilazione del questionario dal sito.
“Ma quindi loro hanno detto che era necessario e ora non lo è più?” chiede Agosti. Questa azione, visto che di azioni si è parlato tanto fin qui, solleva ulteriori dubbi anzi, quasi quasi dà delle conferme sul fatto che tutto sommato non ci si sia preoccupati così tanto della privacy.
De Stefano all’ulteriore pressione dell’intervistatrice che chiede se non pensa che si debba fare di più chiede ‘e come?’, e alla risposta ‘ma è questa la sfida’ si chiude in un: “e pensate di risolverla urlando questo tipo di problematica che oggi c’è sul mercato che va ben oltre quello che possiamo fare noi? Ed è giusto renderli consapevoli [i pazienti/utenti] che i “dati” - facendo con le dita il gesto delle virgolette - vanno in giro”. Abbozza un sorriso, si alza e se ne va.
Analizzo:
“e pensate di risolverla” - non sono i giornalisti dover risolvere, i giornalisti chiedono a voi colosso della telemedicina di impegnarvi a muovervi eticamente in una zona d’ombra;
“urlando questo tipo di problematica che oggi c’è sul mercato che va ben oltre quello che possiamo fare noi?” - parliamo di una piattaforma da 77,7 milioni di fatturato, non il piccolo studio di quartiere. Farsi più piccoli non vale, non siete un ente benefico senza interessi, secondo me impegnandosi qualcosa di più potrebbero farla.
“ed è giusto renderli consapevoli che i “dati” vanno in giro” - considerato che abbiamo il diritto alla privacy direi di sì, ma qui non infierisco perché era evidente che si stesse arrampicando sugli specchi.
Era a disagio, come è giusto che sia. Tolto il microfono e spente le luci l’inchiesta chiude al minuto 20:20 con De Stefano che parla con qualcuno con la voce provata.
De Stefano: “hanno cominciato a fare domande sui cookie, sui dati dei nostri pazienti che finiscono sui social media e cose del genere”
Persona: “E…?”
De Stefano: “Me la sono dovuta giocare”.
Partita. Gioco. Incontro.
Tiro una linea e concludo così
L’inchiesta Tracciamenti ha sicuramente dei limiti, primo tra tutti: è troppo breve. Tuttavia, non si limita a puntare il dito contro le piattaforme di psicologia online, piuttosto spalanca una porta su un tema che non possiamo più ignorare: il confine sempre più sfumato tra benessere e business, tra intimità e algoritmo.
Se la psicoterapia è un luogo sicuro, allora non può essere anche una fonte di dati da sfruttare per strategie di marketing.
I pazienti non codici né comportamenti tracciabili, ma persone che si affidano e la cui fiducia non deve essere tradita.
Al netto delle gravissime carenze del servizio sanitario nazionale - che, se avesse funzionato non avrebbe lasciato questo buco di mercato da riempire a suon di sponsorizzazioni - forse la vera domanda non è quanto siano utili queste piattaforme, ma quanto siamo disposti a sacrificare della nostra privacy e della nostra etica per accedere al benessere mentale.